Il mondo dello sport piange Chris Pfeiffer, il re degli stuntmen che la scorsa settimana si è tolto la vita a 51 anni. Pfeiffer era noto nel panorama mondiale per i numeri inimitabili che riusciva ad eseguire in sella alle sue moto, tanto da essere inscritto nel Guinness Book of Records. Una carriera ventennale da trialista, endurista, vincitore per quattro volte del prestigioso Erzberg Rodeo Red Bull Hare Scramble e stuntman ufficiale di Ducati e BMW. Grazie ai titoli conquistati nelle sue specialità e ai video postati sui social, la sua fama diventa planetaria. Dopo aver partecipato a più di mille eventi in 94 Paesi del mondo, all’età di 45 anni decide di ritirarsi dalle scene.
Com’è possibile che una vita da Sensation Seeker, alla ricerca costante di emozioni forti e di scariche di adrenalina, sprofondi nell’anedonia?
Da anni, infatti, Chris Pfeiffer cercava di vincere la sua battaglia contro la depressione, un nemico invisibile che ha annientato le sue forze fino a spingerlo a togliersi la vita.
Non si tratta di un caso isolato, sono purtroppo molti gli articoli di cronaca che riferiscono di sportivi che sono arrivati al suicidio. Il legame, infatti, tra depressione e sport praticato ad altissimo livello è molto più forte e presente di quanto si possa pensare.
Cosa può spingere a questo atto estremo una persona con una straordinaria carriera agonistica alle spalle?
Una spiegazione può essere riscontrata nell’evoluzione della carriera dello sportivo che presenta un andamento anomalo rispetto a quella scolastico e poi lavorativo. Intorno ai 15-16 anni, infatti, il giovane atleta comincia ad entrare tra i professionisti per terminare a 35-40 anni quando si trova costretto a ricostruire la propria identità.
Gli atleti che raggiungono importanti traguardi sacrificano la propria vita per dedicarsi costantemente alla disciplina praticata, sottoponendosi a trasferte, pressioni da parte di allenatori, sponsor, società, tifosi e duri allenamenti (per spingersi sempre oltre il proprio massimale). Tutto ciò, accompagnato da vittorie, fama e guadagni elevati, incide profondamente sulla percezione che l’atleta ha di sé modellando la sua identità.
La fine della carriera può essere, dunque, vissuta come uno stacco doloroso e improvviso in cui si passa velocemente dal sentirsi un campione, costantemente esposto ai riflettori, all’essere gradualmente dimenticato, con un impatto emotivo importate che spesso segna in modo indelebile l’uomo che si cela dietro al mito.
Possono insorgere sentimenti di frustrazione, tristezza, ansia e depressione per l’incertezza che riserva il futuro.
In psicologia si parla di un vero e proprio “lutto”, inteso come cambiamento della propria condizione esistenziale che necessita di un riassetto nel quotidiano e del significato che la persona attribuisce alla sua esistenza. Tale sentimento di perdita può riferirsi alla fine di un’esperienza alla quale si è stati legati per molti anni (es. la conclusione di una carriera lavorativa, sportiva, professionale) e al crollo dell’immagine che si aveva di se stessi (es. “io” come campione sportivo).
I vissuti di malinconia e tristezza accompagnano la necessità di abbandonare per sempre qualcosa di sé e del proprio quotidiano, come la presenza di determinate persone o abitudini e routine consolidate negli anni.
All’ex-atleta è richiesto non solo di doversi adattare a nuovi orari, ritmi, diete, cercare altre fonti di guadagno e porsi obiettivi di vita alternativi a quelli sportivi, ma soprattutto di affrontare una possibile crisi di identità, che in compresenza di altri fattori di fragilità individuale, possono condurre a dei quadri di depressione.
A questo si possono aggiungere anche dolori fisici, dovuti a infortuni e traumi collezionati nella carriera sportiva, e la cosiddetta “Sindrome acuta da scarico”. Un arresto improvviso dell’attività sportiva può provocare, infatti, l’insorgenza di stati depressivi, instabilità emotiva, disturbi del sonno, irritabilità diffusa a seguito anche di una diminuzione del 500% di endorfine prodotte con la pratica sportiva.
Molti ex-atleti sublimano il desiderio di perpetuare la propria vita da sportivi diventando allenatori, istruttori, dirigenti di associazioni sportive, proiettando così le proprie aspettative sui giovani atleti e rivivendo, grazie a loro, il proprio sogno agonistico.
Fondamentali sono gli interventi di psicoeducazione e formazione: ammettere di avere un problema viene considerato ancora un segno di debolezza, soprattutto in ambito sportivo dove si è giovani, prestanti e famosi.
In questi casi, è invece indispensabile aiutare la persona ad attribuire un senso a questo cambiamento per favorire un’elaborazione e arrivare ad approcciare la propria esistenza in modo coerente con quanto avvenuto.
A cura della Dott.ssa Anna Venturini
Dott. Bargnani Alessandro Ceo CISSPAT LAB
BIBLIOGRAFIA
Campione F. (2012) Lutto e desiderio. Teoria e clinica del lutto, Armando Editore.
Kremžar Jovanović, B., Smrdu, M., Holnthaner, R., & Kajtna, T. (2022). Elite Sport and Sustainable Psychological Well-Being. Sustainability, 14(5)
Quattrini G. P. (2007) Fenomenologia dell’esperienza. Zephyro Edizioni.
Souter, G., Lewis, R., Serrant, L. (2018). Men, Mental Health and Elite Sport: a Narrative Review. Sports Med – Open, 4, 57
University of Adelaide. “Stopping exercise can increase symptoms of depression.” ScienceDaily. ScienceDaily, 22 March 2018.
Urhausen, A. (1994). Abtrainieren oder das akute Entlastungssyndrom. Rudersport , 44(25 ), p. S. 630.
Cionfi E. (2013). Retrived on: http://spazio-psicologia.com/psicologia-2/psicologia-dello-sport/sportivi-depressione-fine-carriera-vincere-anche/