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Il burn-out nella pratica sportiva
Gli sportivi presi come modello, soprattutto dai bambini, spesso sono gli stessi che riescono a mantenere un alto livello di motivazione durante tutta la durata della carriera, tale da “meritarsi” la consacrazione ad idoli. Ma quante volte ci si innamora (sportivamente parlando) di giocatori che, di punto in bianco, smettono di incantare? Si tratta di sportivi che ad un certo punto della loro carriera, sentendo di non essere più in grado di mantenere l’elevato livello di performance fino a quel momento ottenuto, hanno un drastico calo della prestazione atletica. Tale fenomeno corrisponde ad uno stato psico-fisico ed emotivo che in psicologia viene chiamato Burn–out (Tamorri, 1994) e che letteralmente significa “bruciato”. Agendo a livello emotivo, questo stato psico-fisico porta l’atleta ad una depersonalizzazione, ad un notevole abbassamento dell’autostima, ad una consapevolezza di non poter dare più nulla e ad una perdita d’interesse per lo sport che svolge, attuando atteggiamenti negativi all’interno dell’ambiente lavorativo. Il Burn–out è quindi un vero e proprio status di esaurimento, nel quale l’individuo è sommerso da uno sfinimento fisico e/o emotivo dovuto, nella maggior parte dei casi, a fattori stressogeni derivanti dall’attività che svolge (Ibidem).
Gli studi sul Burn–out hanno origine dalle professioni d’aiuto (quali infermieri, medici, assistenti sociali o insegnanti), Freudenberger (1974) individuò in un gruppo di volontari, inizialmente entusiasti del loro lavoro assistenziale, un graduale manifestarsi dell’aumento della faticabilità, depressione, apatia e abulia. Da ciò si può trarre che il Burn–out è un fenomeno riscontrabile in tutte le professioni nelle quali «l’operatore si trova a contatto in maniera frequente e intensa con l’utente, con carichi affettivi impegnativi e accompagnati da stati di ansia, tensione o frustrazione» (Tamorri, 1994, 141).
Tuttavia, per quanto riguarda la sperimentazione del Burn–out in ambito sportivo, gli autori sono scettici; c’è chi ritiene che sia sperimentabile esclusivamente da allenatori o staff tecnico, e chi, invece, che questo modello possa estendersi anche agli atleti (Tamorri, 1994). Nello sport il Burn–out può essere generato, non solo da condizioni di lavoro stressanti che innescano risposte psiconeurofisiologiche e ormonali negative (Selye, 1974), ma anche con quegli aspetti individuati dalla teoria dello scambio sociale (Thibaut e Kelly, 1959). Secondo questa teoria, l’atleta compie un’analisi costi e benefici e, fin quando i benefici sono maggiori rispetto ai costi, egli è portato a continuare il suo lavoro con impegno e motivazione, quando invece gli oneri superano i vantaggi ci potrebbe essere un ritiro psicologico (Tamorri, 1994).
Il burnout può avere gravi conseguenze sulla carriera, la salute e il benessere generale dell’atleta. Gli atleti che subiscono il burnout sono più inclini ad abbandonare il loro sport o a ottenere prestazioni scadenti, il che porta a una perdita di opportunità di carriera, instabilità finanziaria ed effetti psicologici negativi come l’ansia, la depressione e una ridotta qualità della vita.
I fattori principali individuati nello sport per far fronte agli effetti negativi del Burn–out sono principalmente: il senso di gratificazione e soddisfazione, il sentirsi inserito nel gruppo e la motivazione. La motivazione può essere individuata come il moderatore principale tra l’esaurimento psicofisico e le caratteristiche del lavoro (Salami e Ajitoni, 2016).
Nel corso degli anni molti sportivi hanno avuto delle sintomatologie legate al “burnout” un esempio eccellente è Michael Phelps, lo sportivo con più medaglie nella storia delle Olimpiadi. Lo stesso Phelps in un’intervista con David Axlerod, parlò della sua lotta contro l’ansia, la depressione e contro i pensieri suicidari. Oltre allo “Squalo di Baltimora” anche Venus Williams fece delle dichiarazioni in merito alla pressione che circonda lo sportivo di alto livello «Tutti noi affrontiamo le sfide della salute mentale derivanti dalle inevitabili battute d’arresto e incertezze della vita. Viviamo anche in una cultura che glorifica l’essere maniaci del lavoro, dove i rischi di burnout sono spesso ignorati e dove, ammettiamolo, che tu sia dentro o fuori dal campo, vincere è tutto».
Rimanendo legati al tennis femminile, un esempio eclatante è quello di Ashleigh Barty, la ormai ex tennista australiana, ex numero 1 al mondo, sorprese l’interno panorama sportivo decidendo di ritirarsi a soli 25 anni, all’apice della carriera dichiarando «Sono esausta. La mia felicità non dipende dal risultato. Ho detto alla mia squadra che non ho più la forza per tirare fuori il meglio da me stessa. Non ho più niente da dare e per me è un successo: ho dato tutto».
In conclusione il burnout è un serio fenomeno psicologico e fisiologico che può colpire gli atleti di tutti i livelli e di tutte le età. Il burnout nello sport può essere causato da diversi fattori, tra cui lo stress eccessivo, da lesioni e infortuni e dalla mancanza di supporto sociale. Le conseguenze del burnout possono essere gravi, spaziando dalla riduzione delle prestazioni a effetti psicologici negativi come ansia e depressione. Le misure preventive contro il burnout includono l’aumento del supporto sociale, la fornitura di sufficiente riposo e tempo di recupero, e la promozione di un sano equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. È importante che gli atleti, gli allenatori e le organizzazioni sportive riconoscano i segni del burnout e adottino misure proattive per prevenirlo.
A cura del Dott. Giorgio Sirianni
Dott. Alessandro Bargnani | CEO CISSPAT Lab
BIBLIOGRAFIA
FREUDENBERGER, H.J (1974). Staff burn-out. Journal of social Issues, 30, 159.
SALAMI S.O., AJITONI S.O. (2016). Job characteristics and burnout: the moderating roles of emotional intelligence, motivation and pay among bank employees. International Journal of Psychology, 51 n.5, 375-382.
SELYE, H. (1974). Stress without distress. Philadelphia: Lippincott.
TAMORRI, S. (1994). Neuroscienze e sport: psicologia dello sport: i processi mentali dell’atleta. Torino: Utet.
THIBAUT, J.W., KELLY, H.H. (1959). The social psychology of groups. New York: Wiley.